Inside You [VM18]

L'amore è diverso da ciò che avevo immaginato

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  1. Aleki77
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    Eccoci di nuovo qui per un nuovo, luuuuuunghissimo aggiornamento pre-weekend, godetevelo e fatevelo bastare!!!! ;)

    CITAZIONE
    La canzone proseguì indisturbata, accompagnando Cameron per tutto il tragitto e concludendosi con le ultime note proprio quando dal fondo della strada intravide quel portone che ormai conosceva così bene.

    CAPITOLO 5 - Parte b: -227 giorni



    Parcheggiò il più vicino possibile e spense lentamente l’auto. Improvvisamente tutta l’adrenalina che l’aveva caricata durante il viaggio sembrava essere scemata per lasciar spazio nuovamente alle paure e al carico di responsabilità che avvertiva in quel momento per ciò che stava per compiere. Inalò profondamente e a pieni polmoni e si ritrovò a chiedere ad un Dio nel quale non credeva di darle il coraggio per affrontare la situazione, per affrontare lui.


    Aprì con uno scatto deciso la portiera della macchina e si lanciò in strada verso il portone di House. Bussò in modo energico e senza pensarci troppo, prima che tutti i dubbi e i timori riaffiorassero in superficie. Come sempre dovette bussare più volte prima di ricevere un cenno di vita da parte dell’uomo che sicuramente era spaparanzato sul divano dall’altro lato della porta. Più che un vero e proprio cenno di vita, assomigliava più ad un grugnito scorbutico di chi chiaramente non vuole esser disturbato e men che meno ha intenzione di andar ad aprire la porta.


    Continuò imperterrita a bussare, ormai era lì ed era pienamente decisa ad andar sino in fondo. Dopo minuti che parvero interminabili, finalmente la porta si aprì con uno scatto deciso - “Chi è che rompe le...” - la vista del suo inatteso ospite lo interruppe istantaneamente.


    “Devo parlarti” - disse guardandolo negli occhi e ripetendosi nella mente le frasi che in quei giorni si era preparata per affrontarlo e comunicargli la notizia. Certo House era imprevedibile ma era sempre meglio aver piani di riserva e non esser mai del tutto impreparati.


    House spalancò le braccia appoggiandosi meglio alla porta - “Beh mi sembrava abbastanza chiaro dal tuo, incessante - rimarcò con forza la parola - bussare per farmi scomodare necessariamente dal divano, quindi parla”.


    “Preferirei che i tuoi vicini non partecipassero alla conversazione” - disse seria prima di scansarlo con un braccio ed entrare nell’appartamento con un gesto che ormai era diventato consono e familiare ad entrambi.


    House sgranò gli occhi cercando di nascondere un ghigno - “non ti ha mai insegnato nessuno che occorre essere invitati per entrare nelle case altrui?!” - disse prendendosi gioco di lei.


    “Si, ma ogni regola è confermata da un’eccezione che in questo caso saresti tu...” - gli rispose prontamente - “e comunque se proprio ci tieni posso ritornar sul pianerottolo ma ti assicuro che render partecipi i tuoi vicini di ciò di cui devo parlarti andrebbe solo a tuo discapito” - concluse seria.


    House sgranò di nuovo gli occhi. Nonostante tutto, Cameron, riusciva ancora a sorprenderlo con l’immensa determinazione e forza che era in grado di tirar fuori - “Wow!! Hai intenzione di urlarmi di nuovo contro?!” - le disse, avvicinandosi pericolosamente a lei per provocarla - “perché sai, sto iniziando ad avvertire uno strano deja-vù...”.


    “Che resterà solo ed esclusivamente tale” - lo interrupe lei, decisa.


    “Per fortuna” - la freddò, gelido, lui.


    Cameron cercò di non mostrare il suo stupore e anche una fitta di dolore che sentì all’altezza del petto alle parole di House. Di certo non poteva dir che la situazione stava volgendo per il verso giusto ma d’altronde non si aspettava di certo che sarebbe stata una passeggiata.


    House scorse prontamente l’effetto che le sue ultime parole avevano provocato sulla donna, sebbene le dovette concedere di aver acquisito una migliore capacità di gestire le proprie emozioni. A volte si dimenticava di aver di fronte una donna, ora, di cui aveva tanto, forse tutto da scoprire.


    La guardò dritta negli occhi per poter cercar di capire cosa le passava per la mente e il motivo di quella, decisamente, insolita visita.


    La vide tentennare un attimo a abbassare lo sguardo sulle sue mani unite in grembo. Iniziò ad avvertire un senso d’ansia crescergli dentro. Era da tempo che non la vedeva così insicura e in quel momento esatto seppe che c’era qualcosa di abbastanza serio che la preoccupava. Sperò solo di non dover assistere a qualche patetica scena di confidenze femminili in cui lei si sarebbe sfogata con lui, stile migliore amico, per qualche casino successo con Chase. Anche perché non ci sarebbe stato davvero alcun motivo per cui lei ne avrebbe dovuto parlar con lui visti i loro precedenti anche abbastanza recenti.


    “Allora? Parli o facciamo notte?” - disse cercando di mascherare la sua crescente curiosità e impazienza.


    Lei mantenne lo sguardo ostinatamente basso, come se non ascoltasse le parole di lui. Continuò a seguirla con lo sguardo anche quando lei inaspettatamente si voltò, dandogli le spalle ed iniziando a camminare lentamente nel salotto. A questo punto potè definitivamente dirsi oltre che curioso e impaziente anche un tantino preoccupato - “hai intenzione di rimanere qui fino a Pasqua...”.


    “Aspetto un bambino” - gli disse tutto d’un fiato, voltandosi verso di lui e guardandolo negli occhi con un coraggio e fermezza che lei stessa non credeva di poter avere in un momento del genere.


    Se avesse potuto, la mandibola di House avrebbe raggiunto presto il pavimento. Restò lì, letteralmente a bocca aperta, non riuscendo a distogliere lo sguardo dalla figura di lei che restava immobile a qualche passo da lui. Tantissimi pensieri e soprattutto domande iniziarono ad affollare la sua mente eppure gli sembrava al tempo stesso di aver la mente vuota in corso di black out perché per i primi trenta secondi non riuscì ad articolar alcuna parola o suono vagamente comprensibile.


    Scosse energicamente la testa, distogliendo lo sguardo dall’espressione impenetrabile di Cameron, come a voler eliminare la foschia che sembrava avergli avvolto i pensieri e si ricompose quanto più velocemente possibile cercando di recuperare e nascondere il momento di debolezza che aveva appena avuto. Puntò lo sguardo sul muro alle spalle di Cameron e ghignò - “Complimenti: canguri ed umani possono procreare! Vi daranno il nobel per la scienza...” - disse con sarcasmo, sentendo un accenno di rabbia crescergli dentro.

    Non seppe capire da dove venisse fuori quella rabbia. Forse perché non era assolutamente interessato a saper dettagli così personali della relazione di Cameron con Chase, o più semplicemente perché donne incinta e bambini l’avevano sempre messo di cattivo umore, o ancora perché un bambino tra Cameron e Chase avrebbe definitivamente segnato il punto di non ritorno nella loro relazione e un passo avanti importante, oppure perché non sopportava l’idea che nella vita di Cameron ci sarebbe stato, forse per sempre Chase. Ma questi ultimi due “forse” probabilmente il suo orgoglio non gli avrebbe mai permesso di accettarli e certamente la rabbia e il fastidio che provava in quel momento non aiutavano.


    “House...” - cercò di interromperlo Cameron, ma potè scorgere nei suoi occhi azzurri quella scintilla di disagio che non lasciava presagire nulla di buono.

    “...E perché diavolo sei qui?! Gli ormoni ti stanno dando già alla testa?...” - disse, alzando la voce di un ottava e avvicinandosi di un passo verso di lei.


    “Non...” - cercò ancora una volta di fermarlo.

    “Hai decisamente sbagliato appartamento e uomo a cui rovinare la vita con questa notizia...sai, Chase, quello bion...” - come un fiume in piena continuò a parlare.


    “HOUSE! E’ TUO!” - urlò Cameron, chiudendo gli occhi per un attimo e cacciando fuori tutto il fiato, il coraggio e la determinazione.


    Silenzio. Come fosse appena esploso un tuono. Forte e devastante che lascia dietro di sé un silenzio altrettanto assordante. Si guardarono per alcuni istanti, studiandosi. Lei cercando di cogliere una minima reazione alla sua affermazione. Lui cercando di cogliere anche il più piccolo segnale di bugia. Certo lei era Cameron e con le bugie aveva sempre avuto un pessimo rapporto, d’altra parte però adesso era una donna e non più la ragazzina che lavorava per lui. Prontamente la sua mente si rifugiò al sicuro, pensando che fosse tutto una bugia, una qualche sorta di terribile punizione che Cameron voleva infliggergli per un motivo che al momento non riusciva a focalizzare. Si impose di respirare e mantenere il controllo della situazione che si faceva sempre più critica.


    “Ah...siamo già ad Halloween?” - la provocò cercando di suscitare in lei una reazione che però non arrivò. Lei rimase ferma e immobile al centro della stanza, continuando a guardarlo con aria greve e seria, che iniziava a fargli venir voglia di scappare dalla sua stessa casa - “le battute ad effetto tienile per qualcuno più basso di un metro. Tanto non le hai mai sapute fare!” - accennò un sorriso che presto morì sulle sue labbra quando vide che l’espressione della donna non accennava a mutare.


    “sei l’unico, qui, che sta facendo battute” - rispose seria e composta, sforzandosi di mantenere lo sguardo fisso su quello dell’uomo, nonostante il suo corpo avesse voglia di far tantissime cose diverse che andavano dall’urlare, al piangere, allo scappare, al picchiare l’uomo di fronte a lei e addirittura baciarlo.


    Fu in quel momento, furono gli occhi di lei, piuttosto che le sue parole, a fargli capire che il tempo di scherzare era decisamente terminato. Immediatamente distolse lo sguardo da quello di Cameron, riportando l’attenzione su qualsiasi oggetto fosse presente nella stanza pur di non guardare lei. Rimase immobile con le labbra dischiuse, cercando di metter insieme i tasselli di questa assurda faccenda, come fosse un puzzle, ma la sua mente geniale si rifiutava di collaborare. Il sarcasmo non era servito a nulla e nonostante fosse fortemente tentato di farlo, non poteva voltarsi di spalle ed andar via così decise di approfondire la situazione. A questo punto tanto valeva capire ciò che realmente stava accadendo anche perché di certo Cameron non era impazzita da un giorno all’altro tanto da piombar in casa sua per attribuirgli la paternità di un feto, parassita, come diavolo si chiamava.


    Si incamminò verso il tavolino vicino al divano e ostentando la tranquillità, che in realtà non provava, si versò uno scotch. Si prese del tempo per berlo e cercar di ricomporsi, nonostante l’operazione risultasse resa difficile dallo sguardo penetrante di lei che lo seguiva senza mollarlo un attimo.


    Cameron era rimasta per tutto il tempo ferma nella medesima posizione, in attesa di qualcosa che sapeva molto probabilmente non sarebbe mai arrivato e che anche se fosse arrivato molto probabilmente non sarebbe stato affatto piacevole. Lo vide muoversi per la stanza e lo seguì con lo sguardo cercando di decifrare il linguaggio del suo corpo, le espressioni del suo viso che avrebbero potuto comunicarle qualcosa ma soprattutto gli occhi, quegli incredibili occhi azzurri che non le avevano mai mentito.


    Quand’ebbe terminato il proprio scotch appoggiò il bicchiere sul tavolino restando fermo per un secondo in più in quella posizione prima di alzar, finalmente, lo sguardo su di lei - “...E su quali basi affermi che possa essere mio?” - chiese sfacciato - “il canguro è impotente? Oppure azospermico?”.


    Cameron sbuffò sonoramente pensando che fosse l’ennesima battuta, finchè non incrociò il suo sguardo, per la prima volta, quella sera, serio e concentrato. Chiaramente si aspettava delle risposte che seppur con fatica Cameron era in dovere di fornirgli - “Con Chase è finita quella stessa sera e nell’ultimo periodo io e lui non...beh...” - abbassò lo sguardo imbarazzata sicura che lui avesse colto ugualmente il punto.


    “Faceva cilecca? Oppure lo mandavi in bianco?” - sogghignò divertito e incuriosito dalla faccenda - “del resto la prima volta eri drogata, come ha fatto la seconda volta?!” - chiese fintamente curioso.


    “House, smettila per favore...” - gli disse, avvicinandosi di qualche passo a lui. Sapeva dove sarebbe andata a parare quella discussione e non le piaceva assolutamente.


    “Casa mia, regole mie!” - rispose prepotente - “e la prima regola di questa casa è insultare il canguro” – concluse con un ghigno.


    “COSA DIAVOLO VUOI CHE TI DICA,EH?!" - rispose adirata, osservandolo mentre con nonchalance si girava per avvicinarsi al piano e sedersi sulla panca di quest’ultimo.


    “Dirmi?” - chiese con finta innocenza.


    “SI’!” - urlò, avvicinandosi alla sua nuova postazione, era sempre stato una fuga e rincorsa tra loro - “vuoi che ti parli della mia vita sessuale con Chase? Delle sue prestazioni?”.


    “Nah...quelle le immagino già da solo...” - mostrando la sua migliore faccia schifata - “e poi non vorrei avere incubi questa notte” - concluse sfoggiando un’espressione fintamente spaventata.


    Cameron sbuffò frustrata. Era stanca. Questo confronto la stava sfiancando sia fisicamente che psicologicamente. Inspirò profondamente e cercando di trovar la calma in qualche posto recondito dentro di sé riprese a parlare - “hai intenzione di rendere minimamente adulta e costruttiva questa specie di conversazione?” - tentò come ultimo tentativo.


    “Adulto e costruttivo?!” - ripetè, prima di assumere un’espressione forzatamente pensierosa - “un test di peternità fatto da almeno tre laboratori diversi sarebbe gradito...wue wue” - sorrise stupidamente - "giusto per restare in tema” - disse con finta espressione innocente, scrollando le spalle.


    Cameron lo guardò allibita, sentendo di non aver più le forze per contrastare il suo infantilismo e la sua, ormai ben evidente, non intenzione di affrontare la situazione.


    House si sentì colpire in pieno dallo sguardo sconvolto di Cameron e all’improvviso si sentì messo in un angolo, da tutta quella situazione che non aveva cercato, che non aveva voluto, di fronte a quella donna che, chiaramente, si aspettava, in quel momento, da lui un comportamento diverso.


    “Cosa ti aspetti da me, eh?!” - chiese, protendendosi col busto in avanti verso la donna, enormemente irritato.


    “Nulla, non mi aspetto nulla” - rispose prontamente Cameron. Era la verità e lui lo colse immediatamente.


    “E allora perché me l’hai detto?” - domandò seriamente interessato a quel punto.


    “Perché hai il diritto di saperlo” - rispose con una sincerità disarmante, troppo perché lui fosse in grado di gestirla.


    “Potevo vivere senza saperlo!” - le rispose duro, colpendola e difendendosi nell’unico modo che conosceva.


    Cameron accusò indubbiamente il colpo ma non lo diede a vedere. Abbassò brevemente lo sguardo, fissando la fantasia del tappeto sotto i suoi piedi e mordendosi il labbro inferiore. Questo non fece altro che aumentare il disagio e la rabbia di House che si alzò improvvisamente, con uno scatto veloce che gli provocò una fitta acuta di dolore nella gamba.


    Si incamminò verso il divano - “che cosa vuoi?” - le chiese, parlando velocemente - “soldi?” - ed estrasse il portafoglio dalla tasca interna della giacca che giaceva ancora maldestramente buttata sul bracciolo del divano. Con gesti rapidi aprì il portafoglio e iniziò a controllarne il contenuto, tenendo lo sguardo basso sulle sue mani che vagavano tra le banconote, evitando quello di Cameron - "pensavo avessi uno stipendio ed un’assicurazione medica."


    Con la coda dell’occhio la vide avvicinarsi a lui e metterglisi di fronte. Improvvisamente si bloccò e alzò lo sguardo su di lei. Probabilmente quell’immagine non l’avrebbe più dimenticata per il resto della sua vita. Quello sguardo. Quegli occhi verdi che in passato gli avevano mostrato emozioni e sentimenti che pensava mai nessuno gli avrebbe più rivolto e riservato ora erano pieni di delusione. Si aspettava di trovarvi rabbia, ribrezzo, persino odio ma delusione no e forse tra tutti era quello che faceva più male.


    “Non voglio i tuoi soldi, House” - disse piano, come se avesse paura di disturbar qualcuno o che qualcuno potesse sentirla e nonostante tutto continuava a guardarlo con fermezza.


    House a mala pena sentì ciò che Cameron gli aveva appena detto. Erano gli occhi, quegli occhi, i suoi occhi che facevano male. Distolse lo sguardo nuovamente lanciando con un gesto stizzito il portafoglio sul divano, dal quale cadde per terra provocando un tonfo sordo.


    “Immagino che farai nascere questo miserabile” - riportò lo sguardo su di lei, aveva bisogno di guardarla per far più male a lei e per difendere di più se stesso - “perché Santa Cameron si deve buttare ancora una volta nella missione di redenzione” - le disse tutto d’un fiato, terminando col respiro corto e le mani strette a pugno.


    La conversazione era decisamente arrivata all’epilogo ed entrambi ne erano ormai consapevoli. Cameron alzò di scatto il viso come a volerlo affrontare e fronteggiare ancora di più. In altri tempi le dure parole che lui le aveva riversato contro durante tutto l’arco della conversazione l’avrebbero distrutta molto più facilmente ma adesso sentiva dentro di se una forza maggiore. Adesso non si trattava più di lei e House. C’era il suo bambino da difendere e come una leonessa che difende strenuamente i propri cuccioli, anche lei avrebbe osservato questa legge della natura. Da sola ce l’avrebbe fatta, forse sarebbe stato più difficile ma sapeva che ce l’avrebbe fatta. Rinvigorita da questa consapevolezza si avvicinò maggiormente a lui, decisa a metter fine a quella conversazione una volta per tutte - “House...ascolta...so che sei sconvolto e, credimi, lo sono anch’io, quindi risparmiati le tue frasi fatte e le tue etichette” - lo vide sbuffare - “Non sono venuta qui per chiederti soldi, qualche tipo di relazione o un ruolo nella vita di questo bambino ma che tu lo voglia o no, CERTAMENTE, LUI NASCERA’ - pronunciò con maggior enfasi le ultime parole - sapevo anche che non ti saresti fidato di me e avresti richiesto il test di paternità” - fece una pausa e prese fiato - “nonostante mi aspettassi tutto questo, mi sto rendendo conto che ho comunque preteso troppo da te.” - gli disse decisa e dura - “ti assicuro che la mia presenza qui stasera è esclusivamente a scopo informativo. Hai sempre sostenuto che fosse meglio sapere, a discapito di tutto e tutti. Ora, invece, mi dici che TU avresti vissuto meglio senza saperlo!” - fece una pausa, per scorgere una qualche reazione nell’uomo di fronte a sé, che astutamente distolse lo sguardo, sapendo di essere stato colpito - beh...NOI no! Per me, per lui” - portò una mano al ventre in quel gesto ormai automatico e infinitamente dolce - “era importante che tu lo sapessi.” - concluse guardandolo intensamente per pochi secondi, prima di girarsi e andar via, senza aspettare quella reazione che sapeva non sarebbe arrivata.


    House non le staccò un attimo gli occhi di dosso, finchè non vide scomparire la sua piccola figura dietro la porta. Come sospeso in un’altra dimensione e non realmente conscio di quello che era appena accaduto si diresse verso la bottiglia di scotch e si riempì un altro bicchiere che buttò giù in un sol sorso, chiudendo forte gli occhi. Restò per secondi interminabili fermo con il bicchiere in una mano e la bottiglia nell’altra prima di zoppicare, dolorosamente, senza bastone, verso il pianoforte e sedersi pesantemente appoggiando la bottiglia e il bicchiere di fronte a lui.


    Mantenne lo sguardo fisso sul liquido ambrato all’interno della bottiglia prima di prenderne un nuovo e cospicuo sorso, questa volta direttamente dalla bottiglia, riappoggiandola poi, non troppo delicatamente, sul piano.


    Cameron si era richiusa la porta di House alle spalle e si era fermata sul pianerottolo respirando a fatica, come se avesse appena corso e fosse fuggita da qualcosa, meglio dir da qualcuno. Si appoggiò stanca con le spalle al muro accanto alla porta. Alzò il viso e chiuse gli occhi, imponendosi di respirar lentamente e calmarsi. Tutto intorno a lei era silenzioso e poteva sentir nelle orecchie il battito velocissimo del suo cuore finchè dei suoni prima incerti poi sempre più nitidi e definiti provenirono da casa di House.


    Seppur in passato non avesse mai avuto la reale possibilità di sentirlo e vederlo suonare intuì subito che quella musica, forte, veloce, provenisse dai tasti del pianoforte e dalle sue abili mani.


    Percepì il suo stesso respiro accelerare nuovamente seguendo il ritmo di quella melodia. Strinse i pugni cercando di contrastar la necessità di correre e fuggire che quella musica le stava facendo crescer dentro.


    All’improvviso e senza alcun preavviso la musica si interruppe, facendo ripiombare l’ambiente nel silenzio più assoluto. Durò, però, solo un attimo perché all’improvviso l’apparente quiete fu squarciata da un rumore sordo e da una cacofonia di note. Fu come se attraverso la porta riuscì a vedere il pugno che House aveva sferrato sui pregiati tasti del pianoforte e sobbalzò, trattenendo il respiro. Fu come se quel pugno avesse colpito anche lei. Appoggiò le mani contro il muro per mantenersi e con un sospiro strozzato, non avvertendo più alcun suono provenire dall’intero dell’appartamento si incamminò verso la propria auto.
     
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  2. <cameron>
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    Eccoci ancora qui con un nuovo capitolo tutto per voi!



    CAPITOLO 6: -226 giorni


    Si svegliò con la bocca impastata, la gamba che bruciava dal dolore, la schiena a pezzi e un’emicrania che sicuramente avrebbe ricordato per molto tempo. Sbatté più volte gli occhi, cercando di abituarsi alla penombra della stanza in cui si trovava.

    Soltanto dopo parecchi secondi riconobbe tra quelle pareti il proprio salotto. Cercò di mettersi a sedere con non poche difficoltà e si sforzò di elaborare qualche pensiero coerente, ma la mente sembrava avvolta da una coltre di nebbia impenetrabile e ovattata.

    Pensò che dovessero essere le prime ore del mattino considerando la quantità di luce che penetrava dalle persiane lasciate aperte la sera precedente. Si chiese perché avesse trascorso la notte sul divano e non ci fu bisogno di indagare molto; appena i suoi occhi notarono le diverse bottiglia di birra e una di scotch completamente vuote sul tavolinetto di fronte a sé, ebbe le risposte che cercava.

    Notò distrattamente il suo portafoglio ancora maldestramente gettato sul pavimento dalla sera prima.

    La sera prima.

    I ricordi ritornarono improvvisamente vividi come non mai; nemmeno la sbornia da paura che si era preso l’aveva aiutato a cancellare dalla mente quella conversazione, quegli occhi verdi. Forse avrebbe dovuto bere fino a svenire, magari avrebbe preso una bella botta in testa che gli avrebbe provocato una qualche forma di amnesia temporanea, solo così, forse, avrebbe potuto dimenticar quella sera. Si alzò di scatto, dolorante e infastidito dal corso che i suoi pensieri avevano preso, ma si dimenticò di aver un muscolo in meno e in circolo ancora tanto alcol da stendere un elefante. La testa gli girò improvvisamente e un avvertì una nausea terribile. Camminò il più velocemente possibile e raggiunse in tempo il bagno per svuotare il contenuto, decisamente alcolico, del proprio stomaco. La giornata era iniziata decisamente nel peggiore dei modi.

    -------

    Dall’altra parte della città Cameron si svegliò di soprassalto mettendosi a sedere e scaraventando per terra tutte le coperte. Non ebbe nemmeno il tempo di calzar le ciabatte e corse a piedi nudi verso il bagno prima di accasciarsi sul pavimento e riversare il contenuto del proprio stomaco nel wc. Si concesse qualche minuto sul freddo pavimento del bagno per riprendersi e quando il proprio respiro si fu regolarizzato si alzò e si avvicinò al lavandino per lavarsi i denti e sciacquarsi il volto.

    Un’altra giornata era iniziata con la compagnia, ormai immancabile, delle nausee mattutine.

    Alzò lo sguardo e a stento si riconobbe in quel riflesso pallido nello specchio di fronte a sé. Il primo giorno che le nausee comparvero, nonostante il disagio, ne fu felice ed entusiasta, era la prima prova e segno tangibile di quel bambino che viveva, cresceva, respirava dentro di lei e adesso erano quasi diventate una scomoda e fastidiosa routine giornaliera da affrontare in solitudine, senza la possibilità di poter condividere queste esperienze, uniche della gravidanza, con qualcuno. Immancabilmente il pensiero le volò alla sera precedente e a quell’amaro quanto necessario confronto con House. Non si aspettava proposte di matrimonio, anzi si aspettava che lui reagisse esattamente nel modo in cui aveva reagito, nonostante ciò, quella fitta dolorosa che provava dalla sera precedente, non accennava a voler andar via. Riemerse dal vortice dei propri pensieri e senza esitare si tolse il pigiama ed entrò nel box doccia.

    Nonostante la mancanza totale di appetito il medico che era in lei prese il sopravvento e si impose di far colazione con latte,cereali, frutta e decaffeinato. Abbondò col makeup quella mattina e lungo la via per l’ospedale si fermò ad un’edicola per acquistare giornali con annunci immobiliari di appartamenti in zona.

    --------

    Le porte automatiche del PPTH le si aprirono di fronte e la routine dell’ospedale l’accolse, allontanandola per un attimo dal tornado che aveva appena scombussolato la sua vita privata.

    Fortunatamente il pronto soccorso quel giorno fu più tranquillo del solito, pochi casi di lieve entità che le permisero di non stancarsi eccessivamente, ma anche di non allontanare, come avrebbe voluto, i pensieri che le affollavano la mente. Approfittando di un momento completo di stasi decise di allontanarsi un attimo, avvisando l’infermiera alla reception del pronto soccorso che sarebbe rientrata in pochi minuti e che in caso di emergenza avrebbe potuto chiamarla sul cerca persone. Odiava dover uscire dal pronto soccorso ed addentrarsi nei corridoi del PPTH perché il rischio di incontrare lui, aumentava vertiginosamente.

    Prese le scale, evitando accuratamente l’ascensore e prima di percorrere il corridoio si accertò che fosse sicuro dopo di che si precipitò fuori, camminando velocemente e a testa bassa. Raggiunse la prima porta sulla sinistra e busso energicamente. “Avanti” - giunse una voce maschile attutita dallo spesso legno della porta.

    Socchiuse leggermente la porta e vi si affacciò: “Ciao...ti disturbo?” - sbirciando nell’ufficio per constatare se il medico fosse impegnato con qualche paziente.

    “Ehi ciao...no, no, entra pure...accomodati” - disse gentilmente. Cameron lo ricambiò con un sorriso sincero e si sedette sulla sedia di fronte alla scrivania dell’oncologo.

    Wilson posò la penna che aveva tra le mani e si sistemò meglio sulla propria sedia: “Allora? Come va?” - chiese sinceramente interessato.

    Cameron: “Bene...per fortuna oggi al pronto soccorso è una giornata abbastanza tranquilla” - sorrise, sentendosi finalmente più leggera di poter parlare con qualcuno.

    Wilson: “Stai bene, vero? Posso far qualcosa? - chiese con un pizzico di preoccupazione nella voce. Nei suoi precedenti e fallimentari matrimoni non aveva mai avuto la fortuna di aver a che fare con una gravidanza e con una donna incinta. Tutto ciò che sapeva a riguardo derivava da pregresse e ormai un po’ arrugginite conoscenze mediche apprese durante i suoi lunghi anni di studio.

    Cameron: “Per la verità sì...mi servirebbe una prescrizione per delle vitamine e dell’acido folico...” - chiese stringendo le mani in grembo, quasi si vergognasse di far proprio a Wilson una simile richiesta.

    Wilson: “Ah sì, certo...non c’è problema.” - Cercò di usar il tono più rassicurante che avesse, ben comprendendo il disagio della donna di fronte a sé.

    Cameron alzò lo sguardo su di lui e sentendone il bisogno gli fornì delle spiegazioni - “Mi dispiace chiederti questo e che non ho ancora contattato la ginecologa per fissare la prima ecografia e preferisco non aspettare...la prossima prescrizione la farò far da lei, non ti preoccupare.” - Concluse sorridendo, pensando che un oncologo potesse sentirsi un tantino a disagio nel prescrivere vitamine e quant’altro ad una donna incinta.

    Wilson: “Per me non c’è alcun problema...” - sorrise sincero ed iniziò a tirar fuori l’occorrente per la prescrizione.

    Cameron: “A proposito, sapresti indicarmi il nome di qualche brava ginecologa o ginecologo al Princeton General?” - Chiese tutto d’un fiato, sapendo che tale richiesta avrebbe fatto sorgere un bel po’ di domande nella mente di Wilson.

    Wilson: “Al Princeton General? Ma...” - I suoi interrogativi furono subito interrotti.

    Cameron: “La mia ginecologa lavora qui ma non mi va che sia lei a seguirmi, preferirei che la voce si diffondesse il meno possibile qui in ospedale...complicherebbe solo ulteriormente la situazione.” - Disse non senza nascondere il disagio che derivava dal fargli una confessione simile.

    Wilson: “Si capisco, al momento non mi sovviene in mente nessuno però lasciami far qualche telefonata, ho dei colleghi che lavorano al General, sapranno sicuramente aiutarmi.” - Mentre iniziava a scriver la prescrizione - “Allora, cosa ti prescrivo?”

    Cameron: “Avevo pensato al ferro-folic, il complesso delle vitamine B e...” - fissò la scrivania e si portò l’indice alle labbra con fare pensieroso.

    Wilson: “...vitamina E!” - Aggiunse alla lista sorridendo.

    Cameron: “Ok, penso basti così.” - Concluse annuendo.

    Wilson terminò di scrivere la prescrizione e gliela consegnò gentilmente. Cameron la piego e la infilò accuratamente nel taschino del proprio scrub rosa.

    Cameron: “Grazie mille.” - E lo disse con così tanta sincerità, nascondendo in quelle due semplici parole una gratitudine molto più profonda che andava ben oltre la semplice prescrizione medica di un po’ di vitamine, che Wilson avrebbe voluto abbracciarla e cullarla così come si fa con i bimbi piccoli spaventati dopo un brutto sogno. Soppresse questa sensazione e si protese maggiormente verso di lei, cercando di creare un’intimità maggiore e necessaria per quello che aveva intenzione di chiederle - “Hai parl...” - ma improvvisamente la sua curiosa domanda fu interrotta dal beep del cerca persone di Cameron. La donna si affrettò a leggere il messaggio. Si scusò brevemente con Wilson parlando di un emergenza al pronto soccorso e velocemente uscì dall’ufficio.

    Corse per il corridoio, dimenticandosi per un attimo che avrebbe potuto incontrarlo da un momento all’altro. In quel momento le sue priorità erano altre e infatti non si accorse di quell’uomo fermo sulla porta del proprio ufficio, appoggiato al suo fedele bastone che la scrutava silenzioso, reprimendo violentemente quell’insano e inaspettato neonato senso di protezione che gli diceva di raggiungerla e fermarla impedendole di correre in quel modo lungo il corridoio. Restò a guardarla finché la vide scomparire dietro le porte dell’ascensore. Strinse forte la mano intorno al manico del proprio bastone e appoggiandovisi con ancor più veemenza rientrò nel proprio studio, richiudendosi di nuovo nella sua tana, maledicendo se stesso di continuar ad essere attratto da lei, che continuava a considerava una delle donne più belle che avesse mai visto, nonostante in quel momento la stesse odiando o per lo meno credeva di poter chiamare odio quel tremendo disagio, rabbia, forse dolore che provava.



    see you soon ;) :P
     
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  3. Aleki77
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    ... e finalmente rieccoci a voi dopo varie disavventure ... buona lettura


    CITAZIONE
    Corse per il corridoio, dimenticandosi per un attimo che avrebbe potuto incontrarlo da un momento all’altro. In quel momento le sue priorità erano altre e infatti non si accorse di quell’uomo fermo sulla porta del proprio ufficio, appoggiato al suo fedele bastone che la scrutava silenzioso, reprimendo violentemente quell’insano e inaspettato neonato senso di protezione che gli diceva di raggiungerla e fermarla impedendole di correre in quel modo lungo il corridoio. Restò a guardarla finché la vide scomparire dietro le porte dell’ascensore. Strinse forte la mano intorno al manico del proprio bastone e appoggiandovisi con ancor più veemenza rientrò nel proprio studio, richiudendosi di nuovo nella sua tana, maledicendo se stesso di continuar ad essere attratto da lei, che continuava a considerava una delle donne più belle che avesse mai visto, nonostante in quel momento la stesse odiando o per lo meno credeva di poter chiamare odio quel tremendo disagio, rabbia, forse dolore che provava.

    CAPITOLO 7 - Parte a: -207 giorni

    I giorni passarono veloci, intrappolati in una sicura ed ovattata quotidianità, dove ogni gesto è abitudine, un meccanismo acquisito, uno schema prestabilito. Evitarlo fu semplice, circondata dalle mura del pronto soccorso: nessuno, se non per un motivo strettamente pertinente, si recava in quel posto dimenticato da Dio di sua spontanea volontà; una trincea, in cui spesso tutto avveniva troppo in fretta e mancava il tempo di pensar e razionalizzare e l’istinto ne faceva da padrone; un limbo, troppo spesso sospeso tra la vita e la morte.

    Impegnata in una delicata sutura sul viso di una piccola bambina caduta dalla bicicletta intravide Wilson riconoscerla tra il via vai delle infermiere e andarle incontro con un timido sorriso.
    Soddisfatta dell’aspetto estetico della sutura, certa che non avrebbe lasciato segni permanenti sul viso della piccola bambina, applicò un cerotto, salutò la bambina e la mamma e gettò i guanti nel primo cestino che incontrò sul proprio tragitto. Raggiunse Wilson che l’aveva aspettata pazientemente vicino al banco delle infermiere, intrattenendosi con una di loro, le vecchie abitudini son dure a morire, pensò sorridendo tra sé.

    Cameron: "Cercavi me?" – si intromise nella conversazione prima che quella potesse degenerare. Per questo si guadagnò un’occhiataccia dall’infermiera che, dopo aver salutato Wilson con un cenno del capo, si girò per ritornar alle proprie mansioni.

    Wilson l’accolse con un caloroso sorriso: - "si, spero di non averti disturbato…c’è movimento oggi qui,eh?!" – chiese notando l’affollamento del pronto soccorso così in netto contrasto con la tranquillità del suo, del loro quarto piano.

    Cameron: "non più degli altri giorni, te lo assicuro…però credo di aver qualche minuto libero da dedicarti" – concluse sorridendo ed appoggiandosi con un braccio al bancone delle infermiere.

    Wilson si guardò brevemente intorno, come a volersi accertar di aver un minimo di privacy e che orecchie indiscrete potessero sentire ciò che stava per dirle. La gente tutt’intorno a loro sembrava presa dai ritmi frenetici del pronto soccorso quindi si voltò nuovamente verso la donna di fronte a sé e parlò con un tono di voce di un ottava più bassa rispetto al suo solito, sporgendosi col busto verso Cameron – "ho quell’informazione che mi avevi chiesto" – disse con quanta più discrezione possibile.

    Cameron per un attimo parve non capire e aggrottò la fronte, poi come un lampo le tornò alla mente la conversazione avuta con Wilson qualche giorno prima e il favore che gli aveva chiesto – "oh…" - si guardò nervosamente attorno per poi focalizzare l’attenzione nuovamente sul suo interlocutore – "non parliamone qui…vieni" – gli disse indicandogli il corridoio.

    Camminarono in silenzio, finchè giunsero in caffetteria e si sedettero ad uno dei tavolini più appartati della sala già gremita di gente nonostante mancasse ancora qualche minuto alla pausa pranzo.

    Senza aggiungere altro, Wilson infilò una mano nella tasca destra del camice ed estrasse un pezzo di carta bianco piegato in due. Lo fece scorrere sulla superficie liscia del tavolo verso Cameron che prontamente lo afferrò, lo aprì e lo lesse lentamente, avendo avuto sempre qualche difficoltà nell’interpretare la calligrafia molto irregolare di Wilson:

    Dott.ssa Grace Herbert
    Princeton General
    555-198756


    Annuì impercettibilmente con la testa, prima di ripiegarlo e custodirlo nel taschino del suo scrub rosa – "grazie Wilson" – disse guardando fermamente l’uomo negli occhi per dimostrargli ancora una volta la sua immensa gratitudine nei confronti di colui che al momento rappresentava il suo unico appiglio.

    Wilson: "puoi assolutamente fidarti di lei, è estremamente in gamba e discreta. Ho avuto modo di conoscerla personalmente ad un convegno tanti anni fa e poi ci siamo incontrati più volte ad altri convegni; non sapevo che recentemente si fosse trasferita al General…falle pure il mio nome quando la incontrerai" – le disse con la tranquillità e la consapevolezza di averla affidata nelle mani di un buon medico e di una grande donna.

    Improvvisamente il cerca persone di Cameron prese a suonare. La donna portò subito l’attenzione sul cercapersone leggendone il messaggio e riponendolo al suo posto – "hanno bisogno di me…mi dispiace dover scappar via ogni volta…prima o poi avremo la possibilità di parlar tranquillamente" – disse Cameron sorridente e un po’ mortificata, mentre si alzava dalla sedia.

    Il suo gesto fu bloccato dalla mano di Wilson che, sporgendosi sul tavolo, le afferrò il polso, sorprendendo se stesso e la donna – "come stai?" – chiese tutto d’un fiato e quasi in un sussurro in modo tale che la gente seduta ai tavoli intorno a loro non potesse sentire.

    Cameron si irrigidì sotto la sua presa e dopo essersi guardata attorno ritornò a sedersi – "bene" – rispose sfuggente.

    Wilson: "come stai…veramente" – insistette dolcemente.

    Cameron: "me la cavo" – disse scrollando le spalle – "nei giorni buoni le nausee mi scombussolano un po’ solo la mattina, nei giorni meno buoni, quando sono più stressata o mi agito, beh" – distolse per un attimo lo sguardo dal suo interlocutore e si fissò le mani strette in grembo - "…è più difficile" - gli rispose finalmente sincera guardandolo negli occhi.

    Wilson mantenne la sua presa dolce sul polso della donna, guardandola con dolcezza e tutta la comprensione di cui era capace in quel momento – "se dovessi aver bisogno…" - lasciò la frase a metà, incapace di completarla, non sentendo ancora di aver con lei quella confidenza e intimità che desiderava poter possedere per volerla e poterla aiutarla in quel momento.

    Cameron: "grazie, lo apprezzo davvero" – disse sforzandosi di accennare un sorriso che risultò essere un po’ stanco e tirato. Appoggiò la sua piccola mano su quella dell’uomo che ancora stringeva il suo polso, preferendo lasciar ad un piccolo gesto il compito di andar oltre le parole di ringraziamento che, ultimamente, stava usando decisamente con molta frequenza con Wilson.

    Wilson sorrise ed ritirò la sua mano, appoggiandosi nuovamente allo schienale della rigida sedia – "dovresti cercar di rallentare un po’, però" – disse senza alcun tono di rimprovero nella voce.

    Cameron: "lo so e vorrei tanto poterlo fare ma…non posso davvero permettermelo" – concluse velocemente e prima che l’uomo di fronte a sé potesse aggiungere altro il suo cerca persone riprese a suonare furiosamente. Cameron fermò immediatamente il fastidioso beep e lanciò a Wilson uno sguardo che lasciava intendere “vedi?!”.

    Wilson roteò gli occhi e le sorrise mentre la guardò incamminarsi di fretta verso la porta e, ancora una volta, si ritrovò segretamente a sperare che andasse tutto bene.

    Cameron uscì di fretta dalla caffetteria diretta al ps, non accorgendosi che esattamente alle sue spalle un uomo claudicante camminava altrettanto velocemente ma nella direzione opposta, preoccupato che potesse esser visto.

    A presto, girls. :B):
     
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  4. <cameron>
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    CAPITOLO 7 - Parte b: -207 giorni


    Wilson, mantenendo in equilibrio in una mano il sacchetto contenente il suo pranzo e una tazza di caffè, aprì la porta del proprio ufficio. Se non fosse per la consuetudine con cui si ripeteva quella scena sicuramente si sarebbe spaventato e avrebbe fatto volar in aria il suo, seppur misero, pranzo.

    Lo spettacolo che gli si parò di fronte era lo stesso delle altre mille volte: House spaparanzato sul suo divano con in mano una statuetta che sicuramente aveva preso dalla sua scrivania, che, nonostante registrò la sua presenza non si degnò di guardarlo o salutarlo.

    Wilson con un pesante sospiro richiuse la porta alle sue spalle e si diresse verso la scrivania – "Buongiorno anche a te House!" – esclamò ironico, cercando di attirare l’attenzione dell’amico.

    House: "Quale dei tuoi morti che cammina ti ha regalato quest’obbrobriosa statuetta di porcellana? Sembra fatta da un cieco senza gusto estetico." – rispose sarcastico e pungente come sempre.

    Wilson: "House, devo pranzare, ho tanto da lavorare ed è da un po’ di tempo a questa parte che mi poni sempre le stesse domande, stai diventando un tantino monotono, lo sai?" – disse con finto tono annoiato; nonostante fosse vero che aveva un’ingente quantità di lavoro da portar a termine era curioso del motivo della visita del suo amico che solitamente ne aveva sempre uno valido per far irruzione nel suo ufficio e impossessarsi indebitamente del suo divano.

    House: "Chi? Io? Ma se sono il re dell'intrattenimento e della battuta! Se non fossi un genio della medicina sarei potuto diventare un grande cabarettista." – concluse con una finta risata.

    Wilson: "House cosa c'è? Sei qui per dirmi qualcosa di importante o semplicemente ti annoiavi da solo nel tuo immenso ufficio?!" – cercò di accelerare un po’ i tempi della conversazione, sapendo che per arrivare al nocciolo della questione ci sarebbero potuto voler molti, molti minuti.

    House: "Annoiarmi? Io, con tutti i miei giochini? Ma stai scherzando, vero? E comunque ho fame. Prendi il portafoglio e offrimi il pranzo."

    Wilson: "Mi dispiace, dovevi passar prima, ho già acquistato il MIO pranzo!" – rispose soddisfatto, mostrandogli il sacchetto che conteneva il suo panino. Fu un grave errore perché House con una velocità, che Wilson aveva sempre immaginato uno zoppo non potesse avere, si alzò dal divano e gli sfilò il pacchetto dalle mani, lo aprì e ne estrasse il panino addentandolo voracemente sotto lo sguardo incredulo e sbigottito dell’oncologo.

    House: "Che ora è MIO!" – parlò con la bocca piena.

    Wilson: "Io, a differenza tua, se non l'avessi notato, ho del lavoro da terminare. Adesso se non hai altro da dirmi puoi anche uscire." – rispose, infastidito, di aver “perso” il proprio pranzo.

    House: "Tu? Lavoro? Ma non ti basta sbattere i tuoi begli occhioni nocciola verso la Cuddy per ottenere tutto ciò che vuoi? Ricordo ancora quella volta che ti sei appropriato inutilmente di Cameron solo per farle firmare le tue prescrizioni. Pff…. "– mandò gli occhi al cielo, al ricordo, prima di afferrare un altro consistente morso del panino ormai dimezzato.

    Wilson: "Chiariamo un attimo le cose: prima di tutto sei tu che guardi con i tuoi grandi occhioni azzurri Cuddy e il suo fondo schiena e poi Cameron non è un oggetto e tantomeno non era di tua proprietà quindi non mi sono appropriato proprio di niente e nessuno…in qualità di collega le chiesi semplicemente un favore." – sentenziò.

    House: "Certo! Certo! Santa Cameron sempre disponibile per tutto e tutti. Sei anche tu uno dei suoi casi pietosi?" – chiese con sguardo sprezzante, improvvisamente infuocato.

    Wilson: "Secondo quale tua assurda logica chiederle una favore mi annovera nei suoi casi pietosi?" – rispose, aggrottando la fronte e non capendo dove stava andando a parare l’intera conversazione.

    House: "Chiedere vuol dire aver bisogno, aver bisogno uguale a caso pietoso." – parlò in fretta, tirando in ballo la fredda e sempre certa logica.

    Wilson: "Allora sì, avevo bisogno…avevo bisogno di lei per continuar a far il mio lavoro e se l’avessi dimenticato è stato per colpa tua!" – rispose schietto e potè veder per una frazione di secondo come le sue parole colpirono l’amico, ma durò solo un attimo, perché l’altro si riprese prontamente, come sempre.

    House: "Mia? Io direi che è stata colpa di quel poliziotto mastica nicotina" – digrignò i denti al pensiero di quell’insopportabile uomo che gli aveva incasinato la vita.

    Wilson: "Va bene House, lasciamo perdere" – sospirò pesantemente, sapendo che certe discussioni con Hosue erano battaglie perse in partenza. Abbassò lo sguardo sulle cartelle cliniche che giacevano di fronte a lui sulla scrivania. Aveva bisogno di calmarsi un attimo e distrarsi dalla vista dell’amico. Dopo qualche minuto di silenzio e nessun accenno da parte di House di ritornar nel proprio ufficio fece ritornar lo sguardo sul proprio amico - "…vuoi parlarmi d’altro?" – cercando di capir cosa c’era che non andava con House quella mattina…perché chiaramente qualcosa c’era.

    House: "Oh sì, della crisi mondiale! Il tuo posto di lavoro non è a rischio, statisticamente nel mondo il cancro aumenta e la disponibilità sociale diminuisce." – parlò seguendo il filo dei propri pensieri, completamente ignoti al suo interlocutore, che di tutta risposta aggrottò la fronte.

    Wilson: "Oh, grazie per avermelo reso noto, adesso mi sento più tranquillo." – ritornò alle cartelle cliniche ma fu nuovamente interrotto dalla voce di House.

    House: "Chi è che perde il lavoro prima tra me, te e Cameron?" – chiese fintamente interessato.

    Wilson: "Tu, ovviamente." – disse senza esitazione e sghignazzò nel veder House sgranar gli occhi.

    House: "Ovvio…" - e portandosi l’indice alle labbra assunse per qualche secondo un’espressione pensierosa – "mmm…penso che chiederò a Cameron di mantenermi…" – poi come improvvisamente colto da un’illuminazione folgorante - "Ah già! Ma lei avrà una bocca in più da sfamare tra meno di 7 mesi, quindi, forse, è meglio se chiedo sostentamento a te." – concluse con nonchalance appoggiandosi comodamente allo schienale del divano.

    Wilson, immerso nelle proprie cartelle non realizzò esattamente il pieno significato delle parole dell’amico, convinto che stesse ancora parlando a vanvera di argomenti totalmente futili. Dopo qualche attimo di silenzio però, la consapevolezza di ciò che aveva appena udito lo colpì e con faccia sbigottita fissò l’amico appoggiando sulla scrivania la penna che stringeva in mano.

    Wilson: "Come scusa? Chi avrà da sfamare Cameron tra meno di 7 mesi?" – domandò, sforzandosi di cacciar fuori quelle doti di attore che sperava di aver nascoste da qualche parte e mimando la sua espressione più sorpresa, di chi non sa nulla e viene assolutamente colto in contro piede.

    House: "Togliti quella faccetta sorpresa. Per come conosco te e Cameron, lei sarà corsa da te mezzo secondo dopo che il test è diventato blu." – sentenziò, buttando la testa all’indietro sul divano e chiudendo gli occhi, fingendo una tranquillità che in quel momento non aveva davvero.

    La mente di Wilson corse alla velocità della luce alla ricerca dell’atteggiamento giusto da sostenere: dirgli la verità o continuare la recita? In realtà l’aveva già scoperto, inutile continuar a fingere di non sapere. Sarebbe stata lesivo per entrambi.

    Wilson: "Ohhhhhh insomma….due mesi dopo più o meno." – disse tutto d’un fiato liberandosi di un peso che gli grava sul cuore da troppi giorni ormai. Si era addirittura meravigliato di se stesso per quanto fosse riuscito a tener il segreto che Cameron quella sera al bar gli aveva confidato.

    House: "Stoica la ragazza! Ce ne ha messo di tempo a decidersi!" – sbottò sarcastico ed irritato.

    Wilson: "Non è più una ragazzina e non ha avuto bisogno di decidere un bel niente. Ha avuto solo bisogno di tempo per metabolizzare la situazione e…e poi, aveva bisogno di parlarne con qualcuno." – concluse, quasi a volersi giustificare da un’accusa silenziosa che poteva sentir aleggiare nell’aria.

    House: "tu…tu sapevi e non mi hai detto nulla!! Ma che amico sei? Devo tirarti fuori le cose con le tenaglie?" – disse con la rabbia e il disagio celati dalla finta sorpresa e dall’ironia. Ma i suoi occhi non potevano mentire, non al suo migliore ed unico amico.

    Wilson: "Non era una questione di cui ti avrei potuto parlar io e d’altra parte lei mi ha impedito di farlo." – cercò di spiegar la situazione senza scendere eccessivamente nei dettagli. Non sapeva quale fosse stata la consistenza della conversazione tra lui e Cameron e soprattutto quali e quanti dettagli fossero emersi.

    House: "Era tuo dovere informarmi di una cosa del genere. Tu mi hai tradito!" – esclamò, alzando di un’ottava il tono di voce sull’ultima frase, adesso serio e arrabbiato.

    Wilson: "Eh no!!" - scattò in piedi, profondamente irritato – "Non la mettere su questo piano. Era giusto che te lo dicesse lei e se in questo momento sei qui ad accusarmi deduco che l’ha fatto…com’è andata?" – chiese coraggiosamente, tanto valeva a questo punto scoprir tutte le carte in tavola.

    House: "E' entrata, ha sganciato la bomba e se n’è andata! Ecco com’è successo!" – rispose con tono amaro; il ricordo di quella sera, le sue parole, i suoi occhi, indelebilmente impressi nella sua mente.

    Wilson: "Naaa non è da Cameron….parla!" – chiese, sempre più audace, avendo scorto nell’amico un attimo di vulnerabilità. House aveva chiaramente bisogno di parlare con qualcuno e questo era il momento giusto per spronarlo ad aprirsi un po’.

    House: "Ha accettato di far il test di paternità, ma rifiuta un sostegno economico per il feto se…" - abbassò la testa fissando un punto imprecisato sul pavimento - "... se la paternità fosse confermata." – concluse alla fine, voltando il viso verso la finestra e fissando un punto in lontananza, evitando meticolosamente lo sguardo dell’amico che sentiva puntato sulla sua nuca.

    Wilson: "Le hai proposto il test di paternità?!?!?! Non ti fidi di lei?!" – chiese sbigottito e incredulo, ma d’altronde cosa si aspettava? Che l’abbracciasse e la baciasse, giurandole amore eterno e di costruire una famiglia con lei? Naaa … nemmeno in un’altra vita.

    House: "Ovviamente!!" – esclamò, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, riportando il suo sguardo immediatamente sull’amico, cercando di capire cosa ci fosse di sbagliato in Wilson.

    Wilson: "Oh mio dio…" - coprendosi il volto con le mani – "cosa le hai detto?" – e ad occhi chiusi ebbe un flash di come potesse essere andata la situazione e si sentì male, solo pensando, immaginando come dovesse essersi sentita lei in quel momento.

    House: "Che non voglio aver nulla da spartire con canguri e simili." – aggiunse, sostenendo con enfasi le proprie ragioni.

    Wilson: "Tu…tu…TU SEI UN IDIOTA!" – gridò.

    House: "TU SEI UN IDIOTA!" – gridò più forte.

    Wilson: "Pensi davvero che Cameron sia una donna che possa aver dubbi sulla paternità del proprio figlio?" – domandò incredulo.

    House: "Se una con cui hai fatto sesso una volta sola viene e ti dice che sta aspettando una massa di carne che condivide con te metà del tuo DNA tu che fai? Le dici a braccia aperte: sposiamoci e mettiamo su famiglia?" – lo sguardo improvvisamente gli si fece vacuo, perso chissà dove, tra mille pensieri – "Mio dio!! Siiiii!! Tu faresti proprio così!!" – sconvolto ed inorridito dalla prospettiva.

    Wilson: "Beh se “una”, come la chiami tu, è una mia collega, che prova dei sentimenti per me da tanti anni, anche troppi secondo me, di certo, come prima cosa, non metterei in dubbio la sua parola e House…" - fece una pausa per calmarsi e prender fiato - "penso che NESSUNO qui stia parlando di matrimoni." – lasciando sottintendere che in quel nessuno, pronunciato con più enfasi, fosse compresa anche Cameron.

    House: "Io non le ho chiesto di provare proprio nulla, ha fatto tutto lei." – ancora scuse, ancora giustificazioni alte come muri di cemento, dietro cui comodamente e codardamente rifugiarsi.

    Wilson: "Sì, certo…fossimo tutti bravi come te nel controllare i sentimenti." – sospirò pesantemente, esasperato e si lasciò cadere sulla poltrona dietro di sé.

    House storse la bocca e distolse per un attimo lo sguardo dall’amico, chiaramente infastidito dalle parole appena udite. Dopo pochi attimi guadagnò la sua solita compostezza e riportando lo sguardo su Wilson fece accidentalmente cadere, fingendo la più totale innocenza, la statuetta che sino a quel momento aveva stretto e torturato tra le sue mani nervose - "Ops" – esclamò nei confronti dell’amico, con l’espressione tipica di un bambino che ha appena combinato qualche guaio per cui sa che il proprio genitore si arrabbierà.

    Wilson sospirò profondamente, guardando per un attimo la statuetta di porcella ora frantumata in tanti pezzetti ai piedi del divano; si chiese se la vulnerabilità che aveva intravisto in House per una, seppur breve, frazione di secondo l’avesse sognata; fu, però, l’esitazione di un attimo, perché subito si ricordò chi aveva di fronte, House, l’amico incasinato di sempre e fu convinto che ciò che aveva scorto, seppur fugacemente negli occhi azzurri dell’amico non era solo un abbaglio. Appoggiò la testa allo schienale della sedia – "Comunque…non tirarmi a fondo con i tuoi casini. E’ estenuante parlar con te, lo sai?" – chiuse gli occhi e prese a massaggiarsi le tempie, cercando di allentar la tensione e reprimere sul nascere quel principio di emicrania.

    House appoggiò i gomiti sulle propria ginocchia e dopo aver fissato a vuoto la porta di legno di fronte a sé, con un profondo sospiro affondò il volto nelle proprie mani – "Wilson" – quasi un sussurro – "cosa devo fare?" – quasi inudibile. La voce, insolitamente fievole, carica di incertezza, dei mille dubbi, domande e pensieri che in quel momento gli affollavano la mente. Restò così, con le spalle curve e il volto nascosto, non avendo la forza di guardar l’amico, di guardare, vivere la realtà in cui si trovava, quella realtà che gli chiedeva, ancora una volta, nel proprio mestiere quotidianamente e ora anche in una vita privata che non aveva cercato, voluto, di prendere delle decisioni, che avrebbero avuto un peso, non solo sulla propria vita, ma anche e soprattutto su quella degli altri: di Cameron e del….

    Non era in grado di nominarlo, chiamarlo, definirlo, pur utilizzando un asettico termine medico, nemmeno nel silenzio privato dei propri pensieri.

    Wilson aprì di scatto gli occhi e rimase un attimo spiazzato dall’immagine così vulnerabile di House di fronte a sé; improvvisamente il suo sguardo incontrò quello dell'amico e la sincerità e il turbamento che vi scorse lo scossero profondamente.

    House: "Ha detto che non vuole nulla da me" – continuò - "…ma allora perché me l’ha detto?" – sinceramente confuso.

    Wlson: "E se non te l’avesse detto?" – chiese piano.

    House: "Sarei andato per la mia strada" – ostentando una sicurezza e una convinzione che non aveva.

    Wilson: "E se l’avessi scoperto tra qualche mese? Dopo interi anni?"

    House: "… non so" – e con lo sguardo tornò a vagar fuori dalla finestra, alla ricerca di qualche risposta nel cielo terso di quell’insolita giornata mite di inizio Novembre.

    Wlson: "L’avresti odiata."

    House: "Sì …forse" – ammise.

    Wilson: "Sì, l’avresti odiata." – lo disse deciso, con la consapevolezza di chi conosce fin troppo bene il proprio miglior amico.

    House: "La sto già odiando." – confessò, con voce dura e carica di delusione.

    Wilson: "Sì, ma ti passerà….lo spero….e penso che te l’abbia detto perché è giusto che tu lo sappia…insomma, la conosci…pensi davvero che avrebbe potuto tenerti nascosta una cosa del genere? Anche a costo di farsi male, perché, se conosco bene te e almeno un po’ lei, posso immaginare la vostra conversazione e sono sicuro che abbia fatto male e anche tanto" – rivolse uno sguardo truce nei confronti di House che, colpevole, abbassò per un attimo abbassò il volto – "nonostante questo te l’ha detto e non penso avesse altri fini."

    House: "E ora che succede?" – chiese, quasi timido.

    Wilson: "L’ipotesi matrimonio e famiglia mi sembra di capire che l’hai già scartata ..." – disse ironicamente per stemperare la tensione.

    L’oncologo si prese qualche attimo per riflettere prima di parlare – "House…dipende da te. Lei la sua scelta l’ha già fatta." – con coraggio, diede voce a quelle parole che sapeva per certo House non avrebbe voluto udire.

    Improvvisamente troppo a disagio, House iniziò a guardarsi intorno, sbottonandosi un bottone in più della sua camicia – "Qui dentro si soffoca!"

    Wilson: "Ti offro un frullato, dai." – propose per allentar la tensione accumulatasi tra le quattro pareti del proprio ufficio.

    House: "Vado a prendere un po’ d’aria; penso che il frullato adesso mi resterebbe indigesto." – e con questo si incamminò verso la porta

    Wilson: "Ok, quando vuoi sono qui….ti devo un frullato!" – disse con un sorriso.

    House camminò velocemente verso la porta e una volta sulla soglia sussurrando più a se stesso che a Wilson – "Già…tu sei sempre qui." – e andò via, richiudendosi, con un tonfo sordo, la porta alle spalle.


    to be continued

     
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  5. Aleki77
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    CAPITOLO 7 - Parte c: -207 giorni


    La sera era calata su Princeton, abbassando notevolmente la temperatura, rispetto al clima mite, il cielo terso e un fioco sole che avevano rischiarato la mattinata.

    Cameron era riuscita a tornar a casa ad un orario decente e dopo una breve doccia, adesso riposava distesa sul divano, avvolta nella sua coperta preferita, con una tazza fumante di camomilla e la tv accesa a caso su un futile talk show, col volume al minimo. Dopo aver preso un cospicuo sorso, poggiò la tazza sul tavolino accanto al divano e afferrò un bigliettino che vi aveva lasciato precedentemente. Lo aprì e rilesse più volte nella mente i dati in esso contenuti; senza pensarci ancora afferrò il telefono, dimenticato sul divano accanto a lei e compose velocemente un numero.

    Dopo alcuni squilli a vuoto, una voce dolce di donna rispose - "si, pronto?"

    Cameron: "dottoressa Herbert?" - chiese insicura.

    Dott.ssa Herbert: "si, con chi parlo?"

    Cameron: "sono la dottoressa Cameron, del PPTH. Mi scusi se la disturbo a quest’ora..." - si scusò sinceramente. Quando aveva composto il numero non aveva pensato assolutamente che potesse esser tardi.

    Dott.ssa Herbert: "no, si figuri...se non sbaglio, lei è la collega del dott. Wilson, giusto?"

    Cameron: "si..." - rispose, sorpresa che Wilson l'avesse già avvisata.

    Dott.ssa Herbert: "James è ancora affascinante e don giovanni come un tempo?" - chiese sfacciata.

    Cameron: "temo di sì" - soppresse una risata imbarazzata, sorpresa dalla istantanea confidenza della dottoressa e si chiese cosa facesse Wilson alle donne.

    Dott.ssa Herbert: "bene, è bello sapere che certe cose non cambiano" - ridacchiò - "mi scusi dott.ssa Cameron, la sto importunando con queste reminescenze giovanili, mi dica, cosa posso far per lei?" - chiese gentile.

    Cameron: "avrei bisogno di fissar un appuntamento con lei per una visita" - chiese, cercando di apparir il più professionale possibile.

    Dott.ssa Herbert: "si tratta di un consulto per qualche vostra paziente?" - si informò.

    Cameron: "ehm...veramente no" - inspirò profondamente - "è una questione personale" - espirò, sfiorandosi con la mano libera il ventre ancora piatto.



    ...alla prossima, col nuovo capitolo! Kiss
     
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  6. MissisMad77
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    Ale ed Ila vi chiedo scusa per non aver più commentato questa bellissima fanfic, ma Ale lo sa, non me ne perdo un capitolo! E non vedo l'ora di sapere cosa farà il burbero Dottor House di fronte ad una Cameron incinta del suo pargolo, oh pardon feto!
    Continuate così!Almeno voi riuscite ancora a scalfire un pochino il mio cinico cuoricino! :please:
    Ho sempre pensato a differenza degli autori, posso dire a questo punto e anche del fatto che la vecchiaia mi sta facendo notevolmente inacidire, che anche una persona come House potesse cambiare o meglio migliorare certi aspetti del carattere per trovare un po' di serenità e amore! Quindi sono molto curiosa di vedere come il "vostro" House reagirà a questa gravidanza!
    :tnx: per questi bellissimi capitoli! un bacione a entrambe!
     
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  7. <cameron>
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    tadatadaaa .... siamo tornate e con un capitolo strepitoso!

    Cari e cari lettori, lettrici,
    io e Ale siamo felici che nonostante la nostra discontinuità (non è facile trovare i tempi per mettersi a scrivere in due) ancora ci seguite. Forse pecchiamo di presunzione, ma se questo capitolo vi piacerà la metà di quanto a noi è piaciuto scriverlo, lo amerete!

    Bando alle ciance,
    buona lettura!





    CAPITOLO 8 - Parte a: -203 giorni



    Le luci le bruciavano gli occhi eppure sapeva che era solo una traballante scusa; abbassò lo sguardo per proteggersi da quei raggi artificiali pur sapendo che le luci erano perfette in quella clinica privata. Un architetto e uno psicologo dovevano aver studiato ogni minimo dettaglio di quell’edificio affinché l’ambiente apparisse sicuro ma professionale.

    Seduta sul lettino, avvolta dal sottile camice, lasciò lo sguardo vagare intorno a sé. La stanza in cui si trovava era molto spaziosa e le pareti interamente bianche sembravano accentuare questa percezione. Seppur le luci fossero accese, un enorme finestra, nascosta da una morbida tenda garantiva una perfetta illuminazione naturale. L’arredamento era essenziale e le moderne apparecchiature mediche giacevano ordinate lungo la parete, in attesa di essere utilizzate.

    Quell’ambiente le era così familiare, il suo habitat naturale e quotidiano eppure tutto ciò non le era mai sembrato sconosciuto come in quel momento. Stava sperimentando su se stessa la delicata transizione da medico a paziente e poteva affermar con certezza che, sino a quel momento, la sensazione non le piaceva affatto.

    Sbatté le palpebre un paio di volte, cercando di calmarsi e percepì una fastidiosa corrente d’aria infilarsi sotto al suo camice. Il tonfo delicato di una porta che si chiudeva alle sue spalle l’avvertì che il suo medico stava arrivando. Chiuse gli occhi per qualche secondo ed inspirò profondamente, ordinando a se stessa di mostrarsi una mamma felice di essere in attesa, perché del resto era questo che era. Mamma. Le risultava difficile associare questa parola a se stessa ed era sicura di non aver ancora ben compreso a pieno il significato della parola madre, forse non le sarebbe bastata una vita per capirlo e questo contribuiva a spaventarla ulteriormente.

    “Salve Dottoressa Cameron, sono la dottoressa Herbert” - la voce squillante della donna che adesso era di fronte a lei la destò dal flusso dei propri pensieri. Istintivamente, Cameron strinse con decisione la mano che la dottoressa le tendeva e sorrise cordiale - “sono felice di fare la sua conoscenza” - aggiunse.

    “Piacere di conoscerla dottoressa Herbert e grazie per avermi ricevuto qui, in clinica, con così poco preavviso” - disse Cameron, lasciando trasparire la sua sincera riconoscenza.

    Cameron si prese qualche secondo per osservare la sua interlocutrice: una donna approssimativamente dell’età di Cuddy, curata nell’aspetto e con dolci e rassicuranti occhi nocciola che le ricordarono anche troppo quelli di Wilson.

    “Ma si figuri! Per gli amici di James, ehm...per gli amici del Dottor Wilson sono sempre disponibile” - concluse in fretta la dottoressa, non riuscendo a celare una nota di imbarazzo per l’aver svelato inavvertitamente un dettaglio forse un po’ troppo personale.

    Cameron sorrise comprensiva, intuendo il disagio della donna di fronte a lei. D’altronde Wilson era un uomo affascinante e di certo non poteva biasimarla per provar un interesse nei suoi confronti.

    La dottoressa Herbert prestava consulenze al General Hospital un paio di giorni a settimana, ma la maggior parte della sua professione si svolgeva tra le mura di questa moderna clinica privata appena fuori Princeton, l’ideale per garantirle la discrezione di cui sentiva aver bisogno. I corridoi di un ospedale sono sempre troppo piccoli, le voci girano fin troppo velocemente e al momento una fuga di notizie con annessi pettegolezzi era l’ultima cosa che desiderava.

    “Come le ho accennato telefonicamente sono qui per una questione personale sulla quale sto cercando di mantenere il massimo riserbo possibile...” - Cameron fu interrotta dallo sguardo improvvisamente serio e professionale con cui la dottoressa la stava squadrando. Corrucciò le sopracciglia cercando di capire cosa stesse accadendo.

    “Di quante settimane?” - sentenziò la dottoressa tornando a guardare Cameron negli occhi. Uno scintillio soddisfatto illuminò le iridi nocciola della donna quando notò l’espressione di stupore mista a confusione che si era dipinta sul volto della sua paziente.

    Cameron impiegò qualche secondo per processare ciò che era accaduto e la perspicace domanda postale dalle dottoressa. Dovette ammettere che la donna era in gamba, il suo corpo non mostrava ancora i segni classici della gravidanza, ma non si sorprese più di tanto, d’altronde le era stata consigliata da Wilson.

    “Undicesima settimana” - Sospirò lievemente mentre un sorriso imbarazzato le rischiarava i lineamenti.

    La dottoressa le sorrise di rimando - “Devo presumere che se è qui, ha deciso di portar avanti la gravidanza.” - Mentre con un’occhiata veloce, collaudata in anni di pratica clinica, quotidianamente a contatto con il complicato e delicato universo femminile, osservava le mani di Cameron spoglie di ogni ornamento.

    “Sì, certo. Questo non è mai stato in dubbio!” - Obiettò con meno decisione di quella che avrebbe voluto avere, mentre cercava di cancellare violentemente dalla propria mente quel ripugnante e crudele pensiero che per un istante, un solo doloroso istante, aveva fatto capolino dentro di sé.

    “Diamo un’occhiata?” - Chiese la ginecologa mentre trascinava vicino al lettino un modernissimo ecografo. Accese il macchinario e si accomodò elegantemente sullo sgabello accanto al lettino.

    Per un momento, l’imbarazzo di mostrarsi nuda e indifesa davanti ad un’altra persona, bloccò Cameron, che, però, si riscosse velocemente. - “Certo.” - Sussurrò ed aggiunse poi con più vigore. - “Non vedo l’ora di vederlo.” - Con un sorriso limpido e felice. - “L’ho immaginato tante volte che ormai sono curiosa di vedere se assomiglia anche vagamente ai miei sogni.” - concluse con un filo di voce, quasi avesse paura ad esternare quei sentimenti neonati in lei, sconosciuti sino a quel momento eppure così intensi da toglierle il fiato.

    La dottoressa a quelle parole si voltò e le rivolse uno sguardo dolce ed un fievole sorriso prima di riacquistare la propria aurea di professionalità e dedicare tutte le sue attenzioni al macchinario e alla preparazione dell’imminente esame.

    La temperatura del gel la fece leggermente sussultare, ma cercò di reprimere la tentazione di levarselo di dosso. La ginecologa quasi non notò quella reazione istintiva e così abituale nelle sue pazienti.

    “Vediamo se è grande abbastanza da farsi vedere senza usare la sonda interna!” - parlò la dottoressa senza allontanare gli occhi dal monitor e effettuando una lieve pressione con la sonda sull’addome di Cameron.

    Cameron soppresse una smorfia ed annuì in direzione della dottoressa. Era nervosa e ciò contribuiva ad infastidirla ulteriormente; aveva condotto centinaia di volte lo stesso esame sui suoi pazienti, ripetendo le stesse identiche azioni, applicando quei criteri medici ormai parte del suo bagaglio culturale, nonostante ciò non riusciva proprio ad evitare di sentirsi così, era spaventata, dall’intera situazione di cui non era ancora consapevole e soprattutto perché sentiva di non avere quel controllo di cui aveva disperatamente bisogno in quel momento. Il controllo sulle sue emozioni, il controllo sul suo corpo.

    Continuava a ripetersi che l’ambiente, la procedura le erano familiari ma in realtà ciò che le era familiare era la situazione gestita e vissuta con camice bianco indosso, come medico e non stesa su quello scomodo lettino, inerte ed impotente, come paziente.

    Inspirò profondamente, imponendo a se stessa di rilassarsi e calmarsi.
    “Molto bene, vedo la camera gestazionale” - la voce della dottoressa interruppe improvvisamente il pesante silenzio che aveva avvolto la stanza e destò Cameron da quella specie di trance in cui era caduta; voltò rapidamente il viso verso il monitor ed avvertì la dottoressa ruotare leggermente la sonda, cercando di focalizzare al meglio l’immagine sullo schermo ed individuare i dettagli di cui era alla ricerca.

    Bastò quell’immagine confusa ed in bianco e nero per permetterle, finalmente, di riprendere contatto con la realtà. Nella sua mente iniziarono a scorrere tutte le conoscenze mediche necessarie per interpretare l’esame ecografico, i parametri da ricercare, i dettagli da valutare con attenzione, le misurazioni da effettuare. Si sentì improvvisamente più tranquilla ed in grado di gestire la situazione.

    “L’impianto è perfetto, l’età gestazionale è confermata di 11 settimane, quindi il parto dovrebbe essere previsto, ehm...” - la dottoressa ci pensò un attimo, effettuando rapidi e semplici calcoli a mente - “per la fine di maggio circa” - concluse sicura, voltandosi verso Cameron e sorridendole dolcemente.

    Cameron annuì, trovando nelle parole della dottoressa la conferma a conclusioni a cui, come medico, era già arrivata. Maggio sembrava così lontano ma al tempo stesso così vicino se pensava alla marea di situazioni che avrebbe dovuto fronteggiare in questi mesi per rendere la sua vita quanto più possibile a dimensione di bambino.

    Entrambe le donne si voltarono nuovamente verso il monitor. La dottoressa premette alcuni pulsanti con ferma sicurezza, frutto di anni d’esperienza, passando la sonda in modalità doppler.

    “Valutiamo la flussimetria” - annunciò, sapendo che la sua paziente, a differenza della maggior parte delle altre donne che quotidianamente visitava, era in grado di comprendere a pieno il lessico medico. Cameron si ritrovò ad annuire nuovamente, completamente concentrata nel acquisire quante più informazioni mediche possibili dall’immagine sul monitor. Era come se non fosse la dottoressa a parlare, ma lei stessa.

    “Gli scambi avvengono correttamente, bene” - parlò soddisfatta - “passiamo alla misurazione della translucenza nucale ma da quel che posso vedere non dovrebbero esserci problemi”. La dottoressa eliminò la modalità doppler e posizionò i cursori per effettuare la misurazione. Cameron lesse rapidamente i numeri che apparsero sul monitor e prima ancora che la dottoressa parlasse conosceva già il responso.

    “Rientra nel range” - Cameron anticipò la dottoressa che sorpresa si voltò verso di lei.

    “Esattamente” - sorrise lievemente verso Cameron; di certo non le capitava tutti i giorni una paziente che potesse anticiparla nella lettura di un parametro. Non era così male, da un certo punto di vista facilitava le cose ma dall’altro la caricava di una responsabilità maggiore e un po’ di timore. I medici, si sa, sono i pazienti più esigenti e diffidenti, proprio a causa delle loro conoscenze e ciò rende difficile instaurare un rapporto di fiducia che possa apportar vantaggi terapeutici e non solo.

    “Bene, direi che il più è stato fatto. Quanto peso ha guadagnato in queste settimane?” - le chiese la dottoressa pur continuando a concentrarsi sul macchinario di fronte a lei.

    “600-700 grammi credo” - rispose Cameron, con voce esile, sapendo bene quale sarebbe stata la risposta della dottoressa, che impeccabile arrivò - “Un po’ poco, ha avuto nausee?”

    “Si, soprattutto nelle ultime due settimane ma niente di eccessivamente preoccupante” - concluse Cameron cercando di apparire il più professionale possibile in modo che tale informazione suonasse alle orecchie della dottoressa come il parere di un medico e non la valutazione di una qualsiasi donna incinta.

    “Bene, mi fido del suo giudizio ma se dovessero peggiorare mi avverta” - terminò la dottoressa guardando Cameron e cercando di instaurare tramite il linguaggio non verbale quel rapporto di fiducia di cui entrambe avevano bisogno per portar avanti nel migliore dei modi questa gravidanza.

    “Ora non ci resta che misurarlo, ok?” - chiese la dottoressa non aspettandosi davvero una risposta - “per la determinazione del sesso è ancora un po’ presto, ma non credo ci sia fretta, giusto?”

    Cameron annuì e riportò la propria attenzione sul monitor, seguendo con meticolosa attenzione le operazioni della dottoressa.

    “Sette centimetri, perfettamente nella norma per l’età gestazionale e...” - si interruppe per voltare il monitor direttamente verso Cameron in modo che fossero l’uno di fronte all’altro - “eccolo qui” - concluse la dottoressa con un largo sorriso, danzando con lo sguardo tra la sua paziente ed il monitor.

    Cameron improvvisamente sentì il fiato mancarle ed ingoiò a vuoto. Fino a quel momento aveva osservato le immagini che si erano susseguite sul monitor con lo sguardo impersonale di un medico, interpretandole sulla base delle sue conoscenze ma adesso, che nel suo campo visivo non c’era nient’altro che lui, per la prima volta, si rese conto che per tutta la durata della visita aveva visto suo figlio, loro figlio, qualcosa di ancora così piccolo da poter star nel palmo della sua mano, ma che un giorno avrebbe preso per mano, avrebbe guardato direttamente negli occhi potendone scorgere e definire il colore e non solo sfuocati contorni in bianco e nero, avrebbe potuto accarezzare e sentir il calore e il profumo della sua pelle e non la dura e sterile consistenza del vetro del monitor che inavvertitamente si ritrovò a toccar con la punta delle dita, accarezzando qualcosa di irraggiungibile e pur così vicino a lei, in lei.

    La dottoressa premette un tasto in modo che l’immagine restasse salvata ed immobile sullo schermo e sollevò la sonda. Avvicinò al lettino una confezione di fazzolettini e si alzò con discrezione lasciando che quel momento magico, quella prima conoscenza e riconoscimento avvenisse indisturbata. Con un dolce sorriso stampato sulle labbra si incamminò verso la sua scrivania in un angolo della stanza, dando alla sua paziente il tempo necessario.

    Cameron non si rese conto di quanto tempo trascorse con lo sguardo fisso sul monitor senza respirare. Cercò di imparare a memoria ogni dettaglio di quell’immagine sfuocata, i contorni ancora indefiniti e nella sua mente l’immagine si evolse, modificandosi, accrescendosi, finché non assunse le dimensioni e sembianze di un bambino. Un dolcissimo sorriso le incurvò le labbra e a fatica distolse lo sguardo per ripulirsi dal fastidioso gel con i fazzoletti che ritrovò vicino a lettino.



    ... to be continued
     
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  8. Aleki77
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    Eccociti tornate, dopo tanti, troppi giorni e di questo ci scusiamo ma non temente, abbiamo in serbo tante piccole sorprese per l'imminente fine dell'anno. Siete ancora con noi?!

    :wub:



    CAPITOLO 8 - Parte b: -203 giorni


    Si ricompose e dopo aver lanciato un ultimo furtivo sguardo al monitor si diresse verso la dottoressa che ora era seduta alla scrivania intenta a scrivere probabilmente il referto dell’ecografia.

    Cameron si accomodò alla sedia di fronte alla scrivania e la dottoressa alzò subito lo sguardo su di lei.

    “Tutto bene?” – chiese cordiale la dottoressa.

    “Sì, certo.”

    “Benissimo, immagino conosca la prassi, ho chiamato un’infermiera che le effettuerà un prelievo per gli esami di routine, adesso ho bisogno di porle una serie di domande per compilare la sua anamnesi.”

    “Ok” – rispose Cameron, volendo sbrigare in fretta queste ultime formalità.

    “Prima che dimentichi, in questa busta” – la dottoressa le allungò una busta bianca, con inciso il logo ed il nome della clinica in alto a sinistra – “ci sono alcune copie dell’ecografia, per ricordo, per tappezzare qualche parete” – scherzò la dottoressa.

    “Grazie” – rispose Cameron sorridendo e custodendo con attenzione la busta nella sua borsa.

    “Sa, tendo sempre a consigliare alle mie pazienti, quando possibile, di venir alle visite accompagnate dal futuro papà, serve per iniziare a prender confidenza col bambino, con lo status di genitori, per discutere di eventuali consigli da adottare in casa, nell’alimentazione e nella vita di coppia, sembra essere una buona terapia” – concluse la dottoressa con un sorriso invitante e fiducioso che prestò morì sulle sue labbra guardando la reazione non entusiasta della donna di fronte a lei che, evidentemente imbarazzata, abbassò brevemente lo sguardo.

    “Ehm…non credo sarà possibile.” – disse, rendendosi conto che la dottoressa la guardava stranita, forse non capendo il significato dietro la sua enigmatica risposta, così continuò – “al momento vivo da sola” – concluse Cameron rendendosi conto che dar voce a quelle parole faceva più male di quanto avesse mai immaginato.

    La dottoressa come colta da un’illuminazione annuì ed abbassò brevemente lo sguardo, imbarazzata per aver toccato, certamente, un tasto dolente della vita privata della sua paziente che sin da subito si era dimostrata molto riservata e certamente fuori dai canoni della classica donna incinta tutta ormoni e felicità. Adesso capiva meglio che c’era qualche situazione delicata che non le permetteva di affrontare con la massima serenità questa gravidanza.

    “Dottoressa Cameron, mi scusi, non volevo certamente essere indiscreta ed intromettermi…”

    “Non si preoccupi assolutamente” – la interruppe rapidamente Cameron che si era prontamente ripresa.

    La dottoressa annuì e procedette con le domande di routine per stilare l’anamnesi che si concluse prima del previsto non avendo Cameron precedenti degni di nota nella sua storia medica.

    L’infermiera arrivò con un tempismo perfetto al termine dell’anamnesi e eseguì rapidamente il prelievo. Cameron e la dottoressa si salutarono con una decisa stretta di mano, rimanendo d’accordo che per qualsiasi cosa Cameron avrebbe potuto e dovuto contattarla e che appena pronti gli esami si sarebbero certamente risentite.

    Fece scivolare sul proprio corpo tonico la camicetta azzurra che aveva indossato quella mattina appositamente per quell’appuntamento e, dopo aver allacciato ogni bottone, si sentì pronta per tornare a casa. Fece un profondo respiro, girò la maniglia della porta e si immise nel lungo corridoio della clinica privata.

    Fece qualche passo e si accorse di sentirsi leggera e felice; si ravviò i capelli e finalmente sorrise come non le succedeva da tempo. Con la punta delle dita raggiunse la busta con le copie della sue ecografia, quasi a volersi accertare che fosse tutto vero. Una vocina dentro alla sua testa canticchiava felice: stai per diventare madre … stai per diventare madre … stai per diventare madre e sembrava non ci fosse modo per fermarla.

    Respirò finalmente a pieni polmoni, quasi che in quelle ultime settimane, anche se forse doveva dire mesi, avesse trattenuto il fiato. L’aria sembrava più buona e il sole sembrava più luminoso del solito.

    Sentiva le farfalle nello stomaco, eppure, mai come in quel momento, si sentiva affamata. Un begel! Un begel con salmone e crema di formaggio pensò mentre già aveva l’acquolina in bocca.

    Fece per aprire la porta che l’avrebbe portata al parcheggio quando un uomo, molto gentile e affascinante lo fece per lei. Si voltò per ringraziarlo con il sorriso sulle labbra, ma questo morì nell’istante in cui si rese conto che non era per lei che aveva aperto la porta, ma per un’altra donna vistosamente incinta.

    “Stai attenta tesoro!” – Diceva l’uomo sorridente. – “Non ti affaticare!”

    “E’ solo una porta George! Posso farcela anche da sola.” – Protestava la futura mamma.

    “Oh avanti, permettimi di aiutarti, la dottoressa Herbert ha detto che devo essere coinvolto con l’arrivo del bambino.”

    La donna sbuffò leggermente scocciata, ma non poteva realmente nascondere quanto certe attenzioni le facessero piacere. – “Si, si … lo so! Solo un papà e una mamma realmente coinvolti possono rendere un bambino felice.” – Mentre roteava gli occhi.

    “Appunto!” – Disse George mentre annuiva vigorosamente. – “Non vedo l’ora di averlo tra le braccia questo piccolino!” – Poggiando una mano sul ventre della donna.

    “George, spostati, la signora deve passare!”

    A quelle parole Cameron si rese conto di essere immobili da parecchi secondi. Sbatté le palpebre e con un sorriso triste disse: “Non importa!” – E con un colpo di reni uscì velocemente all’aria per cercare di cancellare quella scena.

    Ora la vocina nella sua testa diceva Stai per diventare madre, ma sei sola e tuo figlio non sarà mai felice perché suo padre non è stato coinvolto in tutto questo!
     
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  9. <cameron>
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    Eccoci tornate a voi, vi proponiamo un nuovo capitolo per farvi sognare un poco ancora in compagnia di House e Cameron. Auguri per un felice anno nuovo.

    con affetto Ale&Ila



    Capitolo 9 - Parte a: - 185 giorni

    Sentiva i piedi bollenti come se li avesse tenuti vicino ad una stufa per ore mentre quel leggero senso di nausea che provava costantemente si era dolorosamente acuito e ora anche l’odore del disinfettante rischiava di provocarle un conato di vomito.

    Abbandonò il proprio corpo su di una sedia e pensò che mai come allora aveva desiderato un bagno tiepido. Certamente questo desidero si era acuito quando un senza tetto le aveva vomitato sulle scarpe più comode che possedeva. Senza nemmeno guardare l’orologio sapeva bene che mancavano almeno tre ore alla fine del suo turno e questo non l’aiutava di certo a migliorare il proprio umore. Sbuffò irritata quando si accorse che le infermiere la osservavano bisbigliando. Sembravano preoccupate e lei sapeva che ne avevano tutti i motivi per esserlo, ma di certo non poteva far saper loro di avere ragione.

    Si passò una mano tra i capelli e immaginò come doveva apparire loro: capelli sciupati, profonde occhiaie, sguardo opaco e più magra del solito.

    Magra! Ecco qual era il suo problema. Essere incinta di 15 settimane e aver perso un chilogrammo invece di averne presi 3 come avrebbe dovuto. Sapeva che la dottoressa Herbert era preoccupata per questo fatto e le aveva detto che entro un paio di giorni doveva quanto meno arginare la perdita per non finire ricoverata, ma Cameron non riusciva tener giù nulla, nemmeno un bicchier d’acqua nonostante fosse perfettamente conscia del pericolo in cui si trovava. La dottoressa Herbert le aveva consigliato uno stop di almeno una settimana, ma Cameron sapeva di non poterselo permettere, aveva bisogno di soldi per potersi mantenere e per dare al bambino tutte quelle cose di cui avrebbe avuto bisogno. Aveva un piano e stare a casa dal lavoro non era contemplato.

    Allungò una mano e dal suo camice sfilò un biscotto che aveva nascosto fin dal mattino. “Un morso Cameron! Che sarà mai!?” – Si disse cercando di farsi forza. Lo portò alle labbra e con decisione ne staccò un piccolo pezzo. Mosse le mascelle in su e in giù e finalmente ne sentì il sapore: cioccolato belga e nocciole. – “Libidinoso.” – Sussurrò prendendone un altro pezzo, mentre sentiva la nausea diminuire.

    Si mosse con cautela sapendo benissimo che era il momento più delicato per la sua digestione. Lentamente lesse con finto interesse una cartella clinica che ormai sapeva a memoria, ma per tener giù anche un biscotto sapeva che doveva rilassarsi e non era facile.

    “House!” – Disse una voce di donna ben nota al PPTH. – “Non puoi venire a nasconderti in pronto soccorso solamente per sfuggire alle tue ore di ambulatorio!”

    Una nota camminata in tre tempi costrinse Cameron ad alzare gli occhi e per un istante i loro occhi s’incontrarono. Non si erano più parlati da quel giorno, nemmeno incontrati a dirla tutta.

    Cuddy apparve qualche istante dopo di House e la sua espressione scocciata e arrabbiata per il comportamento infantile del suo diagnosta, scomparve nel vedere Cameron assumere una colorazione verdastra. - “Cameron … cosa …?” – Cuddy non fece nemmeno in tempo a terminare la frase, che vide la giovane dottoressa piegarsi sul cestino più vicino e rigettare la sua ben misera merenda.

    In un istante il decano di medicina fu vicina alla giovane, dimenticando completamente House, che aveva guardato la scena con un misto di rabbia e compassione per fuggire il secondo dopo che Cameron si era rialzata e aveva sussurrato un flebile: “Merda!” mentre si strusciava la bocca con un fazzolettino di carta.

    “Allison, stai bene?” – Chiese Cuddy stupita e preoccupata. Si prese un istante per guardarla e solo in quel momento si rese conto che la sua sottoposta non stava per niente bene e di certo non era una cosa dell’ultima ora.

    Cameron tentò di sorridere. – “Solo un fastidio passeggero.” – Cercando di schernirsi dietro a quella patetica scusa che si diceva ogni giorno.

    Per un istante Cuddy fu tentata di crederle, ma quei segni così evidenti e profondi quasi fossero incisi sulla pelle della donna, dicevano altrimenti. – “Forse è meglio se andiamo nel mio studio.” – Mentre un sorriso incoraggiante le si allargava in volto.

    La giovane dottoressa sentì su di sé lo sguardo di ogni persona presente e seppe che, per il suo stesso bene, avrebbe dovuto fare quanto il suo capo le chiedeva. – “Ok.” – Sussurrò.


    to be continued
     
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  10. Aleki77
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    Rinnovando gli auguri di un buon 2010, che sia ricco di felicità e soddisfazioni, ecco a voi la seconda parte di questo capitolo al "femminile".
    Occhi aperti per la Befana in arrivo! ;)




    CAPITOLO 9 - Parte b: -185 giorni

    L’ufficio del decano di medicina sapeva sempre di carta e di lillà e quel giorno non faceva differenza. Cameron si accomodò con grazia su una delle poltroncine poste di fronte alla scrivania e con sua sorpresa, Cuddy si sedette in quella libera accanto a lei.

    “Va meglio?” - Le chiese il decano.

    “Naturalmente.” - Mentre cercava di far arrivare il sorriso anche agli occhi - “E’ solo un malessere passeggero, com'è venuto...se ne andrà.” - Cercando di essere persuasiva.

    “Ne sei sicura?” - Chiese Cuddy leggermente imbarazzata, mentre si chiedeva quanto poteva spingersi nella vita privata di un suo dipendente - “So che spesso sembro più un burocrate che un medico, ma per le conoscenze in mio possesso posso certamente dire che non si tratta di un malessere passeggero.”

    Il volto di Cameron prese una leggera sfumatura rosata che quasi si perdeva sotto la sua pelle cerea. Si alzò dalla sedia e cominciò a camminare per lo studio nervosamente come a cercare la risoluzione a un difficile problema.

    Cuddy la guardò preoccupata e decise di continuare - “So che i ritmi del ps possono essere estenuanti e da quando ci sei tu alla guida quel reparto non è mai stato così efficiente, per questo ho bisogno di sapere cosa sta accadendo, in modo da poter far qualcosa...voglio far qualcosa!” - Mentre buttava all’aria il proposito di non immischiarsi con la vita privata dei suoi subordinati.

    Cameron leggermente sorpresa si voltò a osservare il proprio capo che continuava a tenderle una mano tesa, ovviamente metaforicamente parlando, e provava l’irresistibile voglia di lasciarsi aiutare. Del resto sapeva benissimo che voleva solamente qualcuno che la consolasse e che le dicesse che tutto andava bene, ma aveva già coinvolto Wilson e per questo lui ne stava pagando le conseguenze, ma l’orgoglio la frenava come non mai.

    “Cameron, se hai bisogno di una pausa, di staccare per un po’, non devi far altro che dirmelo.” - Disse ancora Cuddy - “Allison...” - la incitò ancora, notando il nervosismo della donna. - “Cosa sta succedendo?”

    Cameron prese un profondo sospiro fissando negli occhi il proprio capo e lo buttò fuori come le era capitato in passato con un brutto voto a scuola - “Sono incinta, Lisa.” - Distogliendo lo sguardo subito dopo.

    Dire che Cuddy fosse sorpresa era davvero a dir poco e per un attimo la sua mente si svuotò nel tentativo di assimilare ciò che aveva appena udito, ma si ricompose immediatamente. Con uno slancio troppo improvviso si alzò dalla sedia e raggiunse Cameron. Le appoggiò una mano sulla spalla per farla voltare e l'abbracciò in un abbraccio inaspettato e un po’ goffo, non essendoci mai stata tra le due donne una gran complicità - “Ma è una notizia fantastica, congratulazioni!" - Disse realmente felice il decano di medicina.

    Cameron ebbe un sussulto inaspettato, ma era proprio quello che cercava da giorni - “Grazie.” - Bisbigliò impacciata non sapendo bene come reagire a quell'aperta manifestazione d'amicizia e di gioia.

    Cuddy si lasciò prendere dalle emozioni e allontanandosi leggermente da Cameron mostrandole un enorme sorriso - “E’ davvero una bellissima notizia, di quanto sei?” - Sinceramente interessata.

    “Quindici settimane.” - Sussurrò con incertezza - “Per l’esattezza quindici settimane più tre giorni.” - Finalmente lasciando trapelare un po’ di quella gioia che voleva provare da tempo.

    Cuddy fece un passo indietro per poter guardar meglio la donna di fronte a lei e con sguardo corrucciato e preoccupato ne squadrò l'intera figura - “Immagino che tu non abbiamo bisogno che ti dica che c'è chiaramente qualcosa che non va.” - Mentre la preoccupazione traspariva da ogni suo poro.

    Cameron fece una smorfia - “Lo so, anche la mia ginecologa è preoccupata, ma ci sto lavorando" - Mentre giocherellava con il bordo del suo scrub rosa un po’ troppo grande per lei.

    “Chi ti sta seguendo?” - Chiese Cuddy mentre faceva mente locale tra i ginecologi del suo staff - “La dottoressa Burweel...oppure il dottor Pattinson?”

    Cameron scosse il capo - “Ho pensato che fosse meglio tenere i miei fatti privati al di fuori del PPTH.” - Vedendo il volto perplesso del suo capo si affrettò ad aggiungere - “Non è una questione di sfiducia verso il PPTH, ma lo sai anche tu, Lisa, come vanno certe cose, non mi va che la mia ecografia venga discussa in mensa.” - Mentre una smorfia eloquente la diceva più lunga di quanto aveva appena detto.

    Cuddy la guardò confusa - “Aspetta, vorresti dirmi che Chase non ha accettato la gravidanza?”

    Cameron fece un colpetto di tosse - “A dir la verità non l'ho informato della cosa." - Mentre un altro problema si aggiungeva alla sua già affollata lista.

    “Adesso sono davvero confusa.” - Disse Cuddy mentre sembrava che ogni sua certezza stesse vacillando.

    In quel momento Cameron sperò che un tifone spazzasse via il PPTH, ma sapeva bene che prima o poi era una cosa che tutti avrebbero saputo e quindi tanto valeva cominciare con il proprio capo - “Non sto aspettando un bambino da Chase.”

    “Ahhh!” - A Cuddy sembrò di essere caduta nel mondo delle sorprese.

    “Tra di noi è finita già da un po’.” - Aggiunse Cameron in fretta prima che potessero arrivare altre domande scomode a cui non voleva rispondere.

    “Ohhh.” - Con un piccolo moto di delusione - “Capisco, cioè avevo sentito qualcosa riguardo la vostra rottura ma credevo...cioè...ok lascia perdere, non è importante.” - Lisa le regalò un sorriso per cercar di rassicurarla.

    "Abbiamo convenuto che fosse meglio per entrambi se avessimo preso delle strade diverse." - Sperando disperatamente che non chiedesse i dettagli.

    “Capisco...adesso comunque sediamoci e dimmi cosa posso far per migliorare questa situazione.” - Mentre Cuddy le indicò il divanetto poco distante dall’ingresso - “Orario ridotto, meno ore in clinica, niente turni di notte, dimmi tu...” - Propose attingendo da quelle che credeva fossero i suoi assi nella manica.

    Cameron sorrise ma scosse il capo - “No, no...nulla di tutto questo.”

    “Ma non puoi continuare così, sai che il bambino ne risentirà...” - Ribatté Cuddy sempre più preoccupata.

    “Diciamo...diciamo che ho studiato a un piano per...come dire...risanare le mie finanze e provvedere al mio...al nostro futuro almeno temporaneamente e ovviamente rallentare almeno parzialmente con il lavoro.” - Mentre inconsciamente dava un colpetto al suo ventre ancora piatto.

    L’intraprendenza era sempre piaciuta a Cuddy e quindi la invitò a continuare - “Esponimi questo tuo piano allora.”

    “Io...avevo pensato che tu potessi darmi quelle ferie che ho arretrate sin da diagnostica...”

    “Certo, ovviamente...” - Annuì Cuddy.

    “E quindi assumermi come libera professionista per occupare quel posto vacante in immunologia.” - Mentre Cameron cercava di far sembrare logico il suo ragionamento.

    “Come scusa???” - Chiese Cuddy che sembrava aver perso parte del discorso.

    “Sai, meno tempo in piedi, meno contatto con i pazienti...e soprattutto due stipendi!” - Mostrando finalmente il suo fine ultimo.

    “Credevo volessi le ferie per star a casa e RIPOSARE, non per fare un doppio lavoro.” - Cuddy sembrava perfino inorridita da quanto la sua dipendente le aveva appena proposto.

    Cameron sorrise un poco - “Non me lo posso permettere se voglio andare ad abitare in un appartamento più grande, quello in cui vivo ora non ci sta nemmeno entrare una culla, figuriamoci un fasciatoio e un lettino.” - Mentre faceva trasparire un leggero imbarazzo.

    Cuddy la guardò con uno sguardo pieno di compassione e forse un pizzico di ammirazione - “Ok, possiamo farlo, sistemo tutti i documenti nei prossimi giorni in modo che tu possa iniziare già da lunedì prossimo, ok?”

    “Ti ringrazio infinitamente.” - Disse Cameron raggiante, mentre con un gesto spontaneo abbracciò Cuddy che ricambiò prontamente.

    Cameron fece per alzarsi dal divanetto quando Cuddy le pose una mano sul polso - “Cameron, ho accettato solamente perché spero che questo sia davvero ciò di cui hai bisogno, mi fido di te come medico e come donna. Ti terrò d'occhio e se vedrò che la situazione è ingestibile provvederò...” - Fece una pausa, abbassò lo sguardo un attimo sulle sue mani raccolte in grembo.

    “Grazie, ci starò attenta!” - Disse Cameron fiduciosa come non era da tempo - “Te lo assicuro.”

    “...abbi cura di te stessa, per favore, non sprecare questa immensa fortuna.” - Aggiunse Cuddy sorridente.

    Il volto di Cameron s'incupì per un istante solo, ma poi tornò luminoso come non lo era da tempo - “Non lo farò! Grazie ancora.” - Mentre chiudeva la porta dietro di sé.
     
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